Storia di Lucera (Capitolo 17): Lucera angioina.

Sconfitto Manfredi, Carlo d’Angiò passò ad occupare Napoli, che era considerata, di fatto, la capitale del Regno; si volse poi contro quelle città che si mostravano ancora fedeli agli Svevi, e in primis Lucera, città fortificata in mano ai saraceni. Qui non trovò alcuna resistenza, ma ugualmente ordinò di abbattere le mura, di colmare i fossati, e in cambio della salvezza pretese dai saraceni il pagamento di un annuo tributo, consentendo che continuassero a vivere secondo le loro leggi e i loro costumi.

Qualche anno dopo (1267), però, alla notizia della imminente venuta di Corradino, i saraceni si ribellarono e si trincerarono nella città, che resistette sia ai tentativi di assalto delle truppe pontificie, al comando dell’abate di Montecassino, che all’assedio dell’esercito angioino. La discesa di Corradino costrinse il re a lasciare poche truppe intorno a Lucera e a muoversi col grosso dell’esercito incontro a Corradino. Lo scontro avvenne il 23 agosto 1268 presso Tagliacozzo (Abruzzo) e il giovane svevo conobbe una dura sconfitta. Fuggendo, riparò nel castello di Astura, dove subì il tradimento di Giovanni Francipani, che lo consegnò all’Angioino, e questi lo fece giustiziare sulla piazza di Napoli.

Liberatosi della minaccia sveva Carlo d’Angiò tornò all’assedio di Lucera, che durò sei mesi, durante i quali i saraceni resistettero stoicamente, riducendosi a mangiare perfino le erbe; alla fine, stremati dalla fame, il 27 di agosto (1269) dovettero arrendersi. Questa volta, in cambio della vita, Carlo impose dure condizioni e il pagamento in oro di un forte tributo. Molti capi arabi furono obbligati a trasferirsi in altri comuni, altri ritennero vantaggioso abiurare, mentre i ghibellini furono giustiziati. Per alcun tempo Carlo restò in Lucera.  

Secondo qualche scrittore ancora una rivolta saracena divampò in Lucera, quando Carlo I si allontanò, per recarsi a soccorrere in Africa il fratello Luigi, che vi era andato con una crociata e si trovava infermo e quasi prigioniero a Tunisi. Allora i ghibellini si raccolsero in Lucera e provocarono la sommossa della città; ma Carlo, tornato presto nel regno, venne a Lucera, dove i saraceni si dichiararono pronti a sottomettersi, non così i ghibellini. Il re fece sapere che se la città si fosse subito arresa con tutti i ghibellini, avrebbe risparmiato la vita ai saraceni, e ciò avvenne, con le immaginabili conseguenze. Ma non si ha la certezza di quest’altro avvenimento, che, invece, potrebbe identificarsi con la precedente sottomissione del 1269.

In seguito a questi fatti d’arme Lucera si era molto spopolata. Occorreva, quindi, ripopolarla, perciò il re invitò gente dalle altre parti del regno e perfino dalla Francia fece venire alcune famiglie perché si stabilissero in Lucera, offrendo loro terre, animali e mezzi per coltivarle ed esentandoli dalle tasse e tributi per dieci anni. Le famiglie provenzali si stabilirono nel castello.

 Il 30 aprile 1273 da Trani ordinò a Leone, capo dei saraceni lucerini, di portarsi in Durazzo, per unirsi agli altri arabi che combattevano contro l’imperatore greco. Quando ne aveva bisogno, Carlo non esitava a servirsi dei saraceni sia per addestrare i falconi, in tempo di pace, ma soprattutto per combattere, e ciò dimostra la considerazione che aveva di essi, come di servi.

Ma gli angioini chiamati a scacciare gli Svevi generalmente non erano ben visti, soprattutto in Sicilia, dove il 20 marzo 1282, a seguito della congiura di Giovanni da Procida, scoppiò quella generele rivolta che va sotto il nome di Vestri Sicilani, sanguinosa rivolta che si estese nell’isola e portò alla cacciata degli angioini. I palermitani offrirono subito la corona dell’isola a Pietro d’Aragona, marito di Costanza, figlia di Manfredi e di Beatrice di Savoia, che si trovava in Palestina a combattere coi crociati per liberare il S. Sepolcro. Questi accorse senza indugio, così come dalle Marche subito discese Carlo con l’esercito, ma in diversi scontri ebbe sempre la peggio. Allora si recò a Bordeaux per duellare con Pietro, ma il duello non avvenne. Si diede quindi a preparare un forte esercito da unire a quello del figlio, il Principe di Salerno, per liberare la Sicilia, sennonché Ruggiero di Lauria ammiraglio dell’Aragonese fece prima ad annientare venti galere provenzali nelle acque di Malta, di là passò nel golfo di Napoli dov’erano le navi angioine. Per quanto avvertito dal padre a non muoversi, il principe di Salerno, preso da giovanile ardore, volle rispondere alla sfida, ma fu sconfitto e fatto prigioniero con molti baroni e tutti furono portati in Sicilia. Sceso dalla Provenza con navi e soldati il re seppe della disfatta del figlio e si portò a Brindisi per assalire la Sicilia in primavera, ma, mentre per terra viaggiava da Napoli a Brindisi, a Foggia fu colto da morbo mortale e vi si spense il 7 gennaio 1275. Il figlio, benché prigioniero, fu dichiarato succcessore, nonostante i palermitani si erano espressi per la sua condanna a morte; ma fu la figlia di Manfredi, Costanza, che volle risparmiargli la vita, quantunque consapevole dello sterminio della sua famiglia compiuta dal padre. Liberato Carlo II fu condotto in Spagna e dopo quattro anni, in seguito a un accordo tra il Re di Francia e Alfonso d’Aragona, succeduto a Pietro, fu liberato e andò in Francia donde tornò a Roma e fu da papa Nicolò IV incoronato re. Così gli Angioini ritornavano a Lucera.

I saraceni, che intanto erano cresciuti di numero, erano ritornati insolenti e avevano ripreso a seminare terrore coi loro assalti nelle vicine contrade. Sfogavano il loro odio soprattutto contro i cristiani. Tra l’altro si permisero di negare al re il convenuto tributo e non vollero riconoscere i magistrati inviati alla riscossione. Col loro comportamento andavano compromettendo sia la pace sociale che la prosperità economica della città – che viveva di agricoltura e pastorizia – che subivano così i maggiori danni. Il popolo si rivolse allora a Carlo II, il quale raccolse un esercito in Toscana e in Francia e lo affidò al maestro razionale della corte e suo familiare Giovanni Pipino di Barletta, con l’incarico di debellare i saraceni. Giunto a Lucera l’esercito, avvennero delle scaramucce fuori delle mura, poi, la vigilia della festività dell’Assunta (14 agosto), si accese una furibonda e sanguinosa battaglia, con grande sterminio di saraceni; i superstiti, che si andarono a nascondere qua e là, nei giorni successivi continuarono a tenere viva la resistenza. Durante questi fatti lo stesso Pipino cadde da cavallo (25 agosto) e corse serio pericolo di morte. Nell’istante in cui si vide perduto, invocando l’aiuto di S. Bartolomeo, fece voto che, se savesse avuto salva la vita, gli avrebbe innalzato un tempio. E fu così: egli fu salvo e fece erigere la chiesa di S. Bartolomeo, che si ampliò con annesso convento affidato ai Celestini. I saraceni, che vollero salvarsi, dovettero abiurare; furono chiamati marrani. Pipino fu ringraziato dal re per l’impresa compiuta, in cambio ebbe numerosi doni, tra cui il casale di Tertiveri, che fu sottratto allo sceriffo saraceno Abdelasio. Pipino si spense nel 1316 e fu sepolto nella chiesa dei PP. Celestini a S. Pietro a Maiella a Napoli.

Carlo volle concedere molti privilegi alla città: innanzitutto ne cambiò il nome in Città di S. Maria, per la sua devozione alla Vergine – la cui statua, salvata dalla distruzione dei saraceni, era stata recuperata in un nascondiglio -, e le offrì le chiavi della città. Fece costruire in onore dell’Assunta un tempio – sul posto dove prima era la maggiore moschea -, che, iniziato sotto il vescovo Aimando, fu consacrato già la prima domenica di ottobre del 1302, sotto il vescovo Stefano I. Alla chiesa lucerina, cioè al vescovo e al capitolo, concesse numerosi appannaggi, al fine di renderne efficiente l’amministrazione e celebrare il culto e la festività in onore della Santa Patrona, ciò che in seguito fu rispettato da tutti i sovrani. Con diplomi del 1301 e 1302 dichiarò la città di regio demanio, elargendo case, terre, animali e mezzi ed esenzione dalle tasse a coloro che venivano a risiedervi e a ripopolarla; confermò la fiera di S. Bartolomeo che durava otto giorni a cominciare dal giorno del Santo.

Alla morte del re, il regno sarebbe toccato al nipote Caroberto, figlio del primogenito di Carlo II, Carlo Martello re d’Ungheria, ma il papa Clemente V si oppose e nominò successore il terzogenito Roberto – il secondogenito Francesco era vescovo di Tolosa -. Roberto si rese molto meritevole per il suo governo e per i numerosi provvedimenti a favore di Lucera: chiese caldamente al papa Giovanni XXII di inviare a Lucera come vescovo, Agostino Casotti, al fine di risvegliare il sentimento della religione cristiana; provvide (1341) alla ricostruzione delle mura cittadine, munite di fossati e baluardi, affidandone l’incarico a un comitato di dieci probi cittadini; promosse la costruzione di numerose chiese (un suo diploma del 1330 annoverava ben 11 parrocchie).73 Alla morte, in concetto di santità del Casotti (1323), Carlo Duca di Calabria (figlio di Roberto) chiese che fosse annoverato nell’elenco dei beati. Nel 1316 Roberto volle per tempo designare suo successore il figlio, Carlo Duca di Calabria, ma questa indicazione provocò il risentimento dei lucerini, che temevano per la demanialità della città, intorno alla quale il re li volle rassicurare, confermando tutti i privilegi e le concessioni ad essa elargiti, ciò che ribadì nel 1337. Inoltre, durante una sua assenza, la moglie Sancia emanò in sua vece un decreto relativo al terraggio, alleggerendo il peso fiscale sui terreni dati in locazione ai cittadini.

Alla morte di Roberto (1343) gli successe la nipote Giovanna, figlia di Carlo, suo primogenito, a lui premorto, che lo stesso Roberto aveva maritata al cugino Andrea, figlio di Caroberto, Re d’Ungheria. I due sposi, però, per la stridente diversità di carattere, non erano molto affezionati tra loro, e questo ispirò ai baroni un tale sentimento di avversione che sfociò nella cospirazione e nell’uccisione del re, che avvenne mentre era in Aversa. Nonostante Giovanna, per dimostrare la sua estraneità al fatto, facesse punire con la morte molti di quelli che avevano preso parte al delitto, pure non riuscì a sciogliere il sospetto insinuatosi nel cognato, Ludovico re d’Ungheria, che la riteneva colpevole e minacciava vendetta. Le fu consigliata, allora, di riprendere marito, per potersi meglio difendere, così sposò Luigi di Taranto, il quale, però, non riuscì a frenare l’ira di Ludovico, che venne nel regno e lo sottomise. Giovanna dovette riparare in Avignone, sotto la protezione del papa. Entrato in Napoli, Ludovico fece giustiziare altri accusati dell’omicidio di Andrea, tra cui Carlo di Durazzo. Ma richiamato in Ungheria, dovette affrettare il suo ritorno, ciò che fece volentieri, anche perché qui nel regno era scoppiato un morbo pestilenziale. S’imbarcò a Barletta, lasciando come suo vicario Corrado di Guilfort (detto Lupo) e come governatore delle Puglie il fratello di questi Ulrico. Approfittando dell’allontanamento del re, i baroni, che parteggiavano chiaramente per Giovanna, si diedero da fare per provocare il suo ritorno. Allora Luigi di Taranto, raccolto un esercito e assoldati valorosi mercenari, riuscì ad avere ragione del Duca d’Apice e a sconfiggere gli Ungari, lasciati a difesa del regno, e a riconquistarlo. Lungo (sei mesi) fu l’assedio agli Ungari di Lucera, che si erano trincerati nel castello. Ma mentre durava questo assedio Luigi di Taranto ordinò che i sindaci gli venissero a prestare il giuramento di fedeltà; ovviamente non vennero quelli delle città ancora in mano agli Ungari (Manfredonia, ecc.), al che il re volle punirle e inviò truppe in Calabria, mentre volle punire soprattutto Manfredonia che invece resistette, anzi furono gli Ungari a mettere in fuga i reali incalzandoli, questi poi, fronteggiati anche da quelli che ogni tanto sortivano dal castello di Lucera, ebbero gravi perdite. Allora Luigi fece cingere con nuovi fossati e trincee la città di Lucera. Saputo di questo assedio Corrado Lupo, vicario del regno, venne dagli Abruzzi a Lucera; Luigi inviò allora forti rinforzi per impedire l’ingresso di Lupo nel castello, cosa che non riuscì e Lupo entrò nel castello e si unì ai soldati ungari che vi erano e, divenuti baldanzosi, sfidarono in aperta battaglia i soldati di Luigi. Il capitano di ventura Duca Guarnieri ritenne di non dover raccogliere il guanto della sfida, e in ciò fu lodato dal re. In risposta Corrado uscì dal castello e insinuò ai suoi di provocare con motti e parole offensive i nemici, che, ancora, non reagirono, sicché non restò a Corrado che dirigersi verso Foggia, che, sguarnita subito cadde e gli ungari fecero notevole oltraggio alla popolazione. Poiché si sparse la voce che in Foggia i soldati di Corrado avevano fatto molto bottino ed erano diventati ricchi, da più parti altri vennero ad unirsi a Corrado, e venne perfino Stefano Voivoda di Transilvania con trecento soldati. Circondato da ogni parte dagli Ungari, Luigi di Taranto, non potendosi mantenere oltre in Lucera, ove cominciavano a mancare i viveri, decise di abbandonare la città e divise i soldati tra Troia, Ascoli e Corneto. Saputosi ciò dagli Ungari, uscirono da Foggia e si recarono a prendere Lucera. Luigi di Taranto si ridusse in Napoli, mentre gli Ungari si diressero verso Corneto, ove si era asserragliato il duca Guarnieri, ma questi tradì il suo signore e si unì agli Ungari e insieme presero Barletta, Trani, Bitonto, Giovinazzo e altre città, poi per Ascoli, Troia e Benevento si diressero verso Napoli. A Melito si scontrarono con le truppe di Luigi e le misero in fuga. Allora intervenne il card. Annibaldo da Ceccano per trattare l’armistizio, in cambio di 120 mila fiorini d’oro versati agli Ungari. A questo punto il re d’Ungheria ritornò nel regno e, auspice il papa, stabilì un trattato di pace, col quale abbandonava il regno coi suoi soldati, al che Lupo si rifiutò di rispettare questo accordo e con settecento cavalieri venne a Lucera, ma si lasciò comprare da Luigi con 25 mila fiorini. E Lucera potè finalmente godere un po’ di pace.

        Giovanna I, che nel 1345 aveva riconfermato i privilegi e le concessioni fatte e nel 1348 era stata richiesta da dieci probi cittadini di una nuova divisione del terraggio, nel 1353 vi provvide, assegnando la terra secondo il ceto: 60 some ai nobili di primo ordine o patrizi o sessantisti, 50 a quelli di secondo ordine o nobili viventi o cinquantisti, e così via.74

        A seguito della congiura ordita da Carlo III di Durazzo – nipote di quel Carlo che era stato strangolato dal re d’Ungheria Ludovico, per vendicare l’assassinio del fratello Andrea – Giovanna I fu detronizzata e uccisa. Assunto il potere, Carlo III con atto del 7 luglio 1381 nominò Cappellani Palatini i componenti del Capitolo ecclesiastico lucerino, ciò che comportava un loro speciale abbigliamento. Spinto dalla sua ambizione, il re pensò di sottrarre alla legittima erede Maria il regno di Ungheria, perciò vi si recò, ma vi trovò la morte (1386); gli successe Ladislao, che dispose l’assegnazione del terraggio vacante. Scomparso Ladislao senza eredi (1415), gli successe la sorella Giovanna II, la quale volle mostrarsi benevola verso il popolo lucerino e con diploma del 9 settembre 1418, per allontanare ogni timore, confermò Lucera città di regio demanio; ma, trovandosi l’erario in ristrettezze, fece intendere che avrebbe imposto un nuovo censo sul terraggio, al che i lucerini inviarono a Napoli una delegazione a perorare la causa, offrendo 200 ducati d’oro, in cambio ottennero la liberazione del terraggio – diploma del 27 gennaio 1431 – anche dal peso dei 15 grana a soma. Nel 1435 alla sua morte, poiché aveva indicato come successore Renato, figlio di Luigi d’Angiò, epperò aveva anche adottato Alfonso d’Aragona, i due cominciarono a contendersi il regno: Renato con l’aiuto del papa entrò in Napoli e cacciati dai forti Castelnuovo e dell’Ovo i catalani li costrinse a rinchiudersi in Aversa. Poi Renato si diede a percorrere le città per ottenerne l’obbedienza. Venne anche a Lucera, dove fu accolto con entusiasmo, anche perché (1438) aveva già provveduto a confermare tutti i privilegi della città. Ottenne il prestito di 3000 ducati d’argento – ringraziò i lucerini con diploma del 21 febbraio 1440 -, da scomputarsi sui pesi fiscali. Intanto, profittando del suo peregrinare, Alfonso, per ridurre in suo favore le città rivali, si mosse da Caiazzo e, dopo aver sottomesse diverse città, giunse a Troia, dove incontrò una certa resistenza, che vinse, per cui molti cittadini vennero a rifugiarsi in Lucera; passò poi a Biccari, dove la resistenza fu più dura, ma alla fine la saccheggiò. Questo comportamento consigliò ai lucerini di non opporre resistenza e di aprire le porte della città, per la qual cosa Lucera ebbe molti favori e privilegi, tra cui l’esenzione da ostaggi e pegni e, quindi, l’indulto a tutti i cittadini per fatti commessi contro il sovrano e i suoi ministri; la conferma della demanialità della città, con l’impegno di non concederla in pegno o in feudo; la riconferma di molti notabili nei loro beni, onori e dignità e la reintegra di altri nei loro beni. Su richiesta dei cittadini, poi, volle ricomporre il dissidio che perdurava tra i lucerini fra Niccolò Tommaso, abate dei Celestini, e fra Andrea Candida, priore di Barletta, dell’ordine di S. Giovanni di Dio, cui aggiunse il perdono concesso ad altri cittadini. E tutto ciò col diploma del 24 ottobre 1442. Successivamente la città ottenne che il trasporto dei viveri per l’armata andasse a ricadere anche su altri centri viciniori e che il re facesse giustizia su alcune vessazioni e controversie tra cittadini, che la città fosse sgravata da ulteriori alloggi militari e continuasse l’uso degli antichi pesi e misure. Infine su richiesta del sindaco Angelo Pascale concesse una fiera di otto giorni a cominciare dal primo martedì di quaresima. Il 5 dicembre 1456 Lucera soffrì molti danni per il terremoto: crollò parte del Castello e il palazzo vescovile fu molto danneggiato, sicché il vescovo mons. Dentice lo fece restaurare.  

 a cura di Dionisio Morlacco

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73. A Roberto si attribuisce la costruzione della chiesa di S. Antonio Abate. Le undici parrocchie erano: S. Maria Maddalena, S. Marco, S. Angelo, S. Caterina. S. Pietro, S. Lucia, S. Matteo, S. Giacomo, S. Martino, S. Paolo, S. Lorenzo.
74. Ogni soma comprendeva 3 versure e ogni versura era di 60 passi quadrati; poi la soma fu ridotta a 2,5 versure, per avere maggiore quantità di terreno da distribuire. Gli assegnatari erano chiamati terraggiari. Alla morte del terraggiaro il terraggio passava al primogenito, mancando questo tornava al comune per una nuova assegnazione.
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