Col re Ferdinando il Cattolico (1452-1516) il Regno delle Due Sicilie cominciò ad essere governato da un vicerè. Alla sua morte il dominio passò alla figlia Giovanna, detta la Pazza (1479-1555), vedova di Filippo il Bello, arciduca d’Austria, figlio dell’imperatore di Germania Massimiliano I.
Giovanna III associò nel governo il figlio Carlo V, che, alla morte dell’avo Massimiliano, ereditò anche l’impero di Germania.
A Carlo V Lucera fu particolarmente legata; a lui donò diecimila ducati per far fronte alle necessità del regno, ottenendo in cambio la riconferma della demanialità con diploma (9.6.1522), indirizzato ai sindaci Corrado e Giovanni Ramamondi. Nel diploma era stabilito anche che, qualora si fosse contravvenuto a tale diritto, i lucerini avrebbero potuto opporsi, chiamare in aiuto altre città e assoldare gente per la difesa, senza che ciò potesse essere considerato atto di ribellione.
Nel 1528 Carlo V venne a rottura con Francesco I, re di Francia, che avanzava pretese sul regno napoletano. I francesi, stretta una lega coi veneziani e coi fiorentini, inviarono truppe al comando del generale Odetto di Foix, signore di Lautrech, che attaverso l’Abruzzo scese in Puglia e concentrò le truppe in Lucera, che trovavasi allora sguarnita. Mentre gli imperiali e i tedeschi al comando del principe d’Oranges, si spostarono dalla Romagna e vennero ad accamparsi sotto le mura di Troia. Il signore di Lautrech, coadiuvato dal capitano Pietro Navarro Cantabro, si mosse a incontrare il nemico, ma i due eserciti si tennero a distanza, senza venire a battaglia, limitandosi a qualche scaramuccia e scontro lungo il Vulgano. Siccome i francesi ricevettero rinforzi dai soldati di Orazio Baglione, a maggior ragione gli imperiali evitarono di venitre a battaglia. E nella notte del 21 marzo 1528, profittando della nebbia, gli spagnoli presero la strada di Napoli. Allora Lautrech entrò in Troia e si rifornì di vettovaglie, poi si diresse verso Melfi, dove passò a fil di spada tremila cittadini, indi volse verso Napoli, compiendo lungo il cammino notevoli stragi. Arrivato a Napoli, ne pose l’assedio, ma per prendere la città fece deviare le acque e ciò produsse un morbo pestilenziale che si diffuse nel regno, provocando non pochi morti, tra cui restò colpito mortalmente lo stesso Lautrech. Poiché Lucera rimase quasi indenne da questa calamità, la cittadinanza per atto di ringraziamento fece erigere una chiesa a S. Rocco fuori le mura.
Morto Carlo V nel 1558, gli successe il figlio Filippo II. Con diploma del 24 settembre 1572 il vicerè Cardinale de Granvela ordinò che non fossero modificati gli ordinamenti amministrativi dati da Carlo V, in base ai quali Lucera era amministrata da dodici probi cittadini, scelti tra i migliori, che duravano in carica tre anni. Prima della scadenza del loro mandato, il vicerè chiedeva al governatore della provincia di provvedere al rinnovo. Allora il governatore richiedeva al ceto dei migliori un nuovo elenco di dodici cittadini più adatti all’ufficio, sui quali acquisiva le debite informazioni e poi sceglieva i più degni, eleggendoli al compito. Questi prestavano il giuramento e poi davanti al capitano della città si dividevano, a sorte o per intesa, la cura della cosa pubblica: così ogni gruppo di tre eletti governava la città per quattro mesi.
Per i più gravi argomenti il capitano convocava tutti gli eletti e alla presenza sua, dell’avvocato e del cancelliere ordinario venivano prese le debite decisioni. L’ultima domenica di agosto il consiglio degli eletti provvedeva alla nomina degli altri funzionari municipali, che duravano in carica un solo anno, ed erano: un dottore in legge, che diventava l’avvocato della città, il cui compito era di scrivere le deliberazioni del consiglio comunale, di sostenere le ragioni del comune nelle liti e di fungere da giudice ordinario nel tribunale della bagliva e in quello delle fiere (di Tutt’i Santi, di Quaresima e d’Agosto); un procuratore e un sindaco, il cui ufficio era di sorvegliare sul rispetto dei privilegi della città e di tutelare i diritti dei cittadini poveri; un cassiere (detto banco), che conservava il denaro delle esazioni e provvedeva ai pagamenti, dietro mandato dei quattro eletti, che potevano ordinare il pagamento fino a sei ducati, ma se di maggiore somma, doveva essere l’intero consiglio a disporre il pagamento; un erario che esigeva le rendite e le passava al cassiere; due provveditori del demanio che vigilavano sugli interessi del medesimo; si facevano anche le nomine dei serventi giurati e di coloro che curavano la vendita o l’affitto delle gabelle, ciò che avveniva in pubblico parlamento con l’intervento degli eletti e di tutti i cittadini chiamati dai banditori e dal suono della campana.
Questi, dunque, gli ordinamenti di Carlo V, ai quali il vicerè introdusse altre utili riforme: non potevano essere eletti coloro che avevano liti con la stessa amministrazione o erano stati suoi debitori; le deliberazioni dovevano essere prese almeno con i due terzi degli eletti; i governatori municipali non potevano avere incarichi razionali o fiscali; due appartenenti alla stessa famiglia non potevano stare insieme o essere nello stesso consiglio; nessuno poteva essere rieletto se non dopo l’intervallo di un biennio; gli eletti dovevano dar conto della loro gestione ed essere sottoposti al sindacato dei nuovi eletti alla presenza del capitano e del suo assessore.
Durante il viceregno di Giovanni Zunica, Duca della Miranda, Lucera subì le devastazioni, le stragi e i sacchegi perpetrati dalla banda di Benedetto Mancone, banda che, per l’energica azione del suddetto vicerè, fu poi dispersa; ma nel 1591 ancora una banda di predatori, del bandito Marco Sciarra (detto Pacchiarotto), venne a saccheggiare la città, facendo anche dei morti: quattrocento banditi entraroro in Lucera e per quattro giorni si diedero a incendiare e a devastare le case di alcuni patrizi (Campana, Gagliardi) e a incendiare gli archivi comunali. Per sfuggire a tanta violenza molti ripararono nella cattedrale, insieme al clero e al vescovo Scipione Bozzuto, il quale, nell’affacciarsi a una finestra del campanile, fu freddato da un colpo di fucile, sparato dal bandito di guardia Puglione.
Nel 1598 alla morte di Filippo II il regno passò nelle mani del figlio Filippo III, che governò fino al 1621; dopo di lui venne Filippo IV, sotto il quale, per la grande miseria in cui era caduto il regno – dovuta innanzitutto al fiscalismo del governo spagnolo per sostenere le guerre, e in primis quella francese -, ebbe a verificarsi la rivolta capeggiata da Masaniello (1647). Il caroviveri era diventato tale che sempre più la povera gente si lamentava e minacciava tumulti nell’indifferenza dei reggitori, finché, dopo la tassa imposta sulla frutta, non scoppiò la rivolta, che avvenne prima in Sicilia e poi, il 7 luglio, a Napoli. A capo della rivolta si pose il pescivendolo Tommaso Aniello, il quale in breve acquistò tale potere da assumere il governo della Repubblica, ciò che gli procurò sia l’invidia che i sospetti dei suoi stessi seguaci, che, congiurando contro di lui, lo uccisero. A capo della repubblica fu chiamato allora il Duca di Toraldo, ma il suo incarico non durò molto, perché anche lui fu eliminato, e al suo posto venne l’armaiolo Gennaro Annese, infine il popolo volle il Duca di Giusa Errico di Lorena, e lo nominò generalissimo delle sue armi. Questi seppe comportarsi così bene, nel sostenere e difendere la cosa pubblica e nel frenare ogni moto incomposto, che gli conferirono il titolo di Duca della Repubblica Napoletana.
Ciò che stava accadendo in Napoli echeggiò in tutto il regno, dove la gente prese a parteggiare o per il re o per il popolo; ma la decisione del Duca di Giusa di servirsi dei fuoriusciti e dei capipopolo per sottomettere le province e far riconoscere la repubblica, provocò malcontenti e disordini, per cui molte bande armate occuparono diverse province. Nella Capitanata venne a spadroneggiare Sabato Pastore, che, autorizzato dal Giusa, occupò Foggia, s’impossessò del denaro della Regia Dogana, poi passò a Troia e, nel Natale del 1647, venne a Lucera, dove per tre mesi tenne la piazza. Appena si spostò altrove, poiché Lucera era favorevole agli spagnoli, il popolo chiamò il Duca di Montesarchio, Don Andrea d’Avalos, perché venisse a ripristinare l’ordine e il potere regio. Ma il Capitano e Maestro di Campo Tommaso Campolieto, che era alle dipendenze del Pastore, con una schiera di popolani fautori alla rivolta, corse a Lucera e mise in fuga quelli che si erano rivolti al d’Avalos. In questo frangente si distinse il coraggio del nobile lucerino Zagacci, che affrontò un gruppo di popolani armati nella piazza della Cattedrale e li respinse fino a Porta Troia, senonché, incalzato da una calca furente alle spalle, appena riuscì a salvarsi, chiudendosi in casa, mentre quelli riprendevano il dominio della città. Ritornava anche Sabato Pastore a imporre lo stendardo popolare. Si ridestò lo Zagacci, che insieme al nobile Agostino del Vecchio e sette gentiluomini ed altri aderenti attaccarono i popolani costringendoli a fuggire. Messe le mani sul propreside della Provincia (Egidio Benelli), sul maestro T. Campolieto, su un tenente generale e su un alfiere, furono consegnati al d’Avalos. Cessate le scorrerie e le rivolte il regno fu recuperato dalla Spagna.
A questi eventi seguì un periodo di calma, durante il quale si registrarono apprezzabili tentativi di vita culturale: fiorì un’accademia letteraria ad opera di Antonio Muscettola, di famiglia napoletana, che, venuto a Lucera al seguito del governatore Marcantonio Muscettola, avendo notato la presenza di cittadini amanti delle lettere, volle fondare un sodalizio di menti elette, in cui due volte al mese i soci erano chiamati a discutere su eruditi argomenti.
a cura di Dionisio Morlacco