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Associazione Lucera Non Tace: Le acque reflue sono una risorsa da valorizzare

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Riceviamo e pubblichiamo:

ACQUE REFLUE: UNA RISORSA DA VALORIZZARE.
L’Associazione Lucera Non Tace, ha avuto il piacere di incontrare nuovamente la gentilissima avv. Maria Difino, esperta in diritto amministrativo - urbanistico e dell’ambiente per affrontare una problematica attualissima in questi giorni infuocati, dal caldo e dagli incendi: parliamo di acqua, ed in particolare, di acque reflue.
Buongiorno Avv. Difino, La ringraziamo di essersi prestata per la seconda volta alle nostre tante domande.
Iniziamo col dire perché è importante affrontare la problematica delle acque reflue.
La questione degli scarichi delle acque reflue assume una grande rilevanza, soprattutto nell’ottica di un fruttuoso impiego dei fondi del PNRR.
Innanzitutto, dobbiamo partire dal fatto che l’Italia è stata condannata, di nuovo, dall’Unione Europea al pagamento di pesanti sanzioni che finiscono ovviamente per gravare sul bilancio statale. Sanzioni che sottraggono risorse importanti ad altri settori sensibili, come le politiche sociali, soprattutto in un momento difficile come questo.
Non voglio far polemiche e l’argomento non mi appassiona più di tanto, ma la politica fa un gran parlare di tagli in quei settori senza farsi un esame di coscienza e guardare al danaro che i contribuenti vedono buttar via in sanzioni, proprio a causa della cattiva gestione della cosa pubblica che, oltretutto, danneggia il cittadino due volte: nella tasca e nella salute.
Ci spieghi meglio, cosa sono in pratica questi “reflui”.
Gli scarichi di acque, urbani o industriali, sono i reflui che scorrono nelle condotte e che finisco sversati nei corsi d’acqua, sul suolo e nel sottosuolo, e nel mare. Essi comportano tutta una serie di rischi per l’ambiente e proprio per questo sono soggetti ad autorizzazione.
Le autorizzazioni riguardano sia lo scarico in sé - poiché la legge dice che “tutti gli scarichi devono essere previamente autorizzati” - sia i valori limiti di emissione che sono determinati dalla legge. In sostanza l’autorizzazione amministrativa allo scarico in un certo senso “legalizza” l’inquinamento dovuto ad attività antropiche e industriali, purché entro certi limiti di sostenibilità ambientale: ecco perché c’è bisogno dei controlli preventivi.
E’ chiaro che proprio perché queste acque, comunque contaminate, si riversano nei suddetti corpi recettori, la questione è di interesse non solo nazionale.
A ottobre scorso (2021) la Corte di Giustizia dell’U.E. ha nuovamente condannato l’Italia per il mancato rispetto della normativa eurounitaria sulle acque.
L’Italia ha collezionato ben 20 procedure di infrazione in materia ambientale di cui 5 hanno
come matrice l’acqua. Una di queste cinque procedure è già in esecuzione, per cui il nostro Paese, attualmente, sta pagando all’U.E. 60 milioni di euro per mancata depurazione delle acque (violazione della direttiva n.271 del 21 maggio 1999 concernente il trattamento delle acque reflue urbane): parliamo di 165 mila euro al giorno di soldi dei contribuenti buttati in fumo.
E se le vecchie condanne hanno riguardato i Comuni più grandi, con l’ultima sentenza dell’ottobre 2021, la Corte Giustizia ha colpito anche i centri più piccoli, fornendo un elenco puntuale dei trasgressori, tra cui compaiono anche Comuni del Subappennino Dauno e del Tavoliere delle Puglie (ad es. Lucera, S. Ferdinando di Puglia, San Severo, Volturino), condannando l’Italia al pagamento di 25 milioni di euro, oltre a 30 milioni per ogni semestre di ritardo. Non solo. L’Italia è stata condannata anche al pagamento delle spese legali !
A cosa sono dovute queste condanne?
Questa condanne sono dovute al mancato adeguamento dell’Italia alle direttive europee, e tuttavia c’è anche un problema che risiede in una normativa nazionale stratificata e complessa che certo non aiuta o, peggio, spesso viene strumentalmente utilizzata per cercare di eludere le responsabilità.
La materia ambientale è molto complessa, soprattutto in tema di acque, atteso che questa disciplina
 
è una deroga a quella sui rifiuti ed è normata dalla parte III del Codice dell’ambiente. Si tratta di due regimi giuridici che si lambiscono e il cui tratto distintivo, a chi non si sa districare bene in questa materia, può facilmente sfuggire: un conto è, infatti, lo scarico di acque reflue, siano esse urbane o industriali, un conto è il rifiuto liquido. Violazioni diverse, dovute a condotte diverse, che implicano responsabilità e sanzioni molto differenti.
Bisogna sempre partire dalle definizioni che la legge fornisce, ed in particolare dalla nozione di “scarico” come è stata da ultimo “confezionata” dal legislatore sulla scorta delle posizioni assunte dalla giurisprudenza e questo spesso non viene fatto; ecco perché, a parte le ipotesi di comportamenti consapevolmente e volutamente violativi della legge, a mio avviso, spesso le amministrazioni e i gestori incorrono in sanzioni.
Poi è chiaro che nella fase attuativa - da parte dell’amministrazione con il rilascio della autorizzazione - e in quella di controllo da parte del giudice, l’interpretazione del testo normativo deve essere sempre guidata da razionalità e ragionevolezza, e non può prescindere dallo scopo della legge e dall’oggetto della tutela nel caso specifico.
Ciò è particolarmente importante in diritto ambientale che è una materia in cui, come l’ edilizia, il controllo sulla attività di rilascio delle autorizzazioni compete a due giudici diversi, quello amministrativo e quello penale. Il rischio di creare “incertezza” sul tipo di condotte legittime in questi casi è dietro l’angolo.
Faccio un esempio a mio avviso molto esemplare prendendo spunto da un caso che si è verificato in Molise. E’ successo che un consorzio industriale aveva richiesto una autorizzazione amministrativa allo scarico per lo sversamento dei reflui del proprio depuratore industriale in un canale di acque dolci che dopo un tratto di circa 4 km sversa in un altro canale consortile di acque dolci e che, a sua volta, scarica in mare. In un primo momento la Provincia aveva rilasciato l’autorizzazione con prescrizioni particolarmente severe a causa di certe componenti chimiche presenti nell’acqua reflua del depuratore industriale, poiché aveva ritenuto che il corpo ricettore (il primo canale) fosse un corpo idrico superficiale.
Successivamente, un funzionario della stessa Provincia, modificando la propria interpretazione e a situazione invariata, aveva ritenuto che, invece, quello fosse uno scarico a mare: in altre parole, i due canali consortili in cui sversavano anche le acque del depuratore industriale, erano ritenute semplicemente come il braccio dello stesso scarico che portava al mare. Proprio perché lo scarico era ritenuto “a mare” l’autorizzazione rilasciata ammetteva livelli di solfati e cloruri più elevati (infatti il mare, rispetto ad un fiumiciattolo, ha maggiore capacità di “metabolizzare” alcune sostanze inquinanti come i sali).
La sospetta vicenda veniva segnalata alle autorità e prendevano il via due processi, uno dinanzi al giudice amministrativo ed uno innanzi al giudice penale.
Ebbene, su questa stessa vicenda, il Consiglio di Stato (che ha confermato la tesi già sostenuta prima dal TAR) e il Tribunale penale si sono espressi in maniera completamente opposta. I giudici amministrativi, con una motivazione molto puntuale e precisa e sulla base delle risultanze della perizia tecnica esperita, ha concluso che quel canale, dove sversavano le acque del consorzio, fosse un corpo idrico superficiale in quanto, malgrado la presenza di acque di scarico, aveva tutti i connotati di un habitat fluviale, il quale può esistere, precisavano i giudici di Palazzo Spada, solo se vi è presenza di acque fluenti e ad elevata ossigenazione. Ed infatti in quei canali vi erano colonizzate canne d’acqua radicate sul fondo e vi erano specie animali anche protette, quali avannotti, rane, cavedani, ecc. Proprio per questa ragione, ovvero a tutela di questo eco-sistema naturale così ben strutturato, l’autorizzazione allo sversamento in questo canale avrebbe dovuto prevedere dei valori di inquinanti con livelli più restrittivi.
Completamente opposta è stata la conclusione dei giudici penali i quali, ignorando le caratteristiche biologiche di quelle acque e le risultanze della perizia tecnica, avevano optato per una nozione “asciutta” di scarico, ritenendo, quindi, i due canali consortili una sorta di condotta per il successivo scarico a mare. Di conseguenza il livello di sostanze inquinanti, quali cloruri e solfati, era ammesso in misura maggiore; l’autorizzazione, come rilasciata dal funzionario imputato era ritenuta legittima con conseguente assoluzione di quest’ultimo perché il “fatto non sussiste”.
 
Un bel pasticcio....
E’ chiaro che qui, a mio sommesso avviso, il giudice penale non ha considerato lo stato dei fatti, ovvero che quei canali vanno considerati a tutti gli effetti corpi idrici superficiali. E, non dimentichiamolo mai, la legge deve essere applicata sempre in funzione di quella che è la sua ragion d’essere. E le autorizzazioni ambientali sono funzionali alla tutela dell’ecosistema naturale e della salute umana.
D’altronde situazioni come quelle innanzi descritte creano incertezza anche negli operatori e questa è una materia che difficoltà e dubbi nell’applicazione ne causa anche a chi la mastica, figuriamoci se non la si conosce.
Gli operatori del settore, hanno gli strumenti per intervenire efficacemente?
Per l’esperienza che personalmente ho avuto, devo dire che gli operatori dell’Arpa e funzionari delle Provincie, così come le forze dell’Ordine (Carabinieri del NOE e della Forestale) sono preparati; forse meno positiva - naturalmente con le dovute eccezioni - è stata l’esperienza con i giudici, quelli ordinari (quindi non specializzati in questa materia) che, ad esempio, ancora scrivono, nelle loro sentenze, di “scarichi occasionali”(!). Fermo restando che ci sono tanti profili problematici in questa materia, ciò non può escludere affatto che chi è chiamato ad applicare queste leggi abbia le necessarie conoscenze e competenze per farlo. Si prenda, ad esempio, la differenza tra titolare, gestore e conduttore dello scarico che è fondamentale perché involge i profili della responsabilità amministrativa. Poi c’è il problema della delega di funzioni, che troppo spesso viene reclamata, soprattutto dai Sindaci, per levarsi d’impaccio, ma che per sussistere giuridicamente, deve rispondere a criteri ben definiti. E poi, ancora, c’è tutto il tema della responsabilità contabile e della giurisdizione della Corte dei Conti nel danno ambientale, anche in una prospettiva de iure contendo.
Il PNRR, come potrebbe ritornare utile in questo contesto?
Moltissimi agglomerati urbani, soprattutto piccoli Comuni, in Italia sono sprovvisti di fognature e di impianti di depurazione adeguati. Queste carenze, sono una delle cause delle sanzioni comminate dall’Unione Europea.
Di fatti, l’ultima condanna ha colpito proprio i Comuni più piccoli, che poi sono quelli con più difficoltà nel far fronte, da soli, alle complessità tecniche e procedurali che attengono alla realizzazione di queste opere, quota parte del servizio idrico integrato.
Le aree in cui il servizio idrico integrato non è ancora pienamente strutturato e quelle impattate dalle infrazioni dell’Unione europea in campo fognario-depurativo il più delle volte, infatti, coincidono. Il sistema idrico e fognario nel nostro Paese è obsoleto; i depuratori spesso non funzionano; non esiste un sistema di riutilizzo delle acque reflue depurate o di recupero di quelle pluviali; non esiste una politica che sul tema idrico, come avviene per gli interventi di efficientamento energetico, preveda misure di incentivazione e defiscalizzazione. Non è un caso, quindi, che il PNRR tra le sue riforme, preveda anche la piena ed effettiva articolazione proprio del servizio idrico integrato con uno stanziamento di 3,5 miliardi di euro.
Anche l’acqua deve diventare una risorsa “circolare” e la transizione ecologica deve passare necessariamente anche attraverso una gestione più sostenibile di questa preziosa risorsa.
Tutto questo significa che la pianificazione degli spazi urbani e la progettazione degli edifici dovranno essere calibrate e strutturate intorno alla riqualificazione idrica del territorio. Questo dimostra ancora una volta che il “governo del territorio” è composto inestricabilmente da quei tre settori, l’urbanistica, l’edilizia e l’ambiente, che nella visione tradizionale sono sempre stati trattati a compartimento stagno.
Ci sono degli esempi virtuosi, nell’attività di recupero delle acque reflue, da utilizzare ad esempio per far fronte alla cronica carenza d’acqua?
   
Sì, ci sono esempi virtuosi, come la pratica del recupero delle acque pluviali. Mi risulta che il Comune di Cagliari ha già attuato un progetto per recuperare le acque reflue separate per innaffiare i parchi pubblici evitando, così di disperdere questi scarichi in mare ed evitare, soprattutto, di utilizzare l’acqua potabile. Inoltre, pare che sugli stradelli di ispezione delle tubazioni, quel progetto preveda di realizzare addirittura una pista ciclabile in sede protetta.
Fa parte di quelle best practices di governo del territorio “sostenibile” che dovrebbero
essere prese ad esempio anche in Italia e che è già molto presenti negli Stati Uniti d’America. Questo è un tema molto affascinante anche per i suoi profili giuridici che, però, aprirebbe un ventaglio di altre problematiche legate alla natura giuridica dell’acqua piovana e ai beni comuni che ci porterebbe troppo lontano.
E allora, per tornare al nostro ragionamento iniziale, in attesa che si muova qualcosa l’Italia dovrà comunque pagare un’altra sanzione a seguito della sentenza della Corte di Giustizia dell’ottobre del 2021 ?
In realtà quest’ultima sentenza di condanna non è ancora esecutiva, ma lo diventerà se l’Italia non si conformerà alle prescrizioni della direttiva europea del 1991 che prima di tutto impone (anzi, già imponeva) l’obbligo della dotazione fognaria entro termini ben precisi, e poi una riduzione del carico inquinante, oltre alla progettazione, costruzione, gestione e manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane sufficientemente adeguata alle variazioni di carico stagionali. Grazie avvocato Difino. Sarebbe interessante, a questo punto, andare a leggere tutto l’elenco
dei Comuni sanzionati dalla sentenza della Corte di Giustizia del 6 ottobre vedere cosa effettivamente si sta facendo, almeno da noi, in Puglia, per evitare che questa condanna diventi esecutiva e rischiare di buttare “a mare” (in sanzioni), per inefficienza della politica e delle amministrazioni, altro denaro dei cittadini.
Siamo arrivati al termine della nostra conversazione. Grazie, avv. Maria Difino.
E ringraziamo calorosamente anche la Redazione di Lucera By Night per lo spazio ch ha voluto dedicarci.
Un caro saluto a tutti i lettori dall’ Associazione Lucera Non Tace

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