IL FIGLIO DI SAUL
regia di Laszlo Nemes (2015)
durata 1 ora e 47 minuti
“Il figlio di Saul” è l’opera prima di László Nemes, talentuoso regista ungherese, purtroppo poco prolifero (o poco finanziato?).
Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes 2015, Premio Oscar e Golden Globe come miglior film straniero, ha fatto incetta di premi praticamente ovunque.
I premi, però, non devono trarre in inganno, perché è tutto fuorché un film facile: il senso di disagio quasi fisico che è in grado di suscitare, lo rende ostico, ma la complessità concettuale che mette in scena lo rende affascinante e ipnotico.
La falsa soggettiva, attuata praticamente per l’intera durata dell’opera, ci impone di seguire e scrutare ossessivamente ogni dettaglio del protagonista, standogli letteralmente con il fiato sul collo.
Saul, Sonderkommando in un campo di concentamento nazista, si muove come un automa in una fabbrica ad altissima automazione: movimenti meccanici, alienazione, organizzazione maniacale del “lavoro”, allontanano concettualmente l’orrore in cui siamo immersi, anestetizzando lo sguardo dello spettatore esattamente come è anestetizzata la coscienza del deportato.
Si ha l’impressione di essere là, nella puzza, nella cenere, nel sangue, tra gli spari e le cataste di corpi da sgombrare in fretta per far posto ad altri.
Le fasi dello sterminio però non sono ostentate in alcun modo (il regista rifugge scientemente ogni spettacolarizzazione della shoà): resta quasi sempre sullo sfondo, fuori campo o in inquadrature sfuocate.E le sporadiche apparizioni in primo piano dei tedeschi, sono tanto repentine quanto brutali, rasoiate fulminee la cui ferocia è così fredda e spaventosa da lasciare quasi inebetiti (persino l’unico gesto di clemenza del film è immediatamente contraddetto da un’implacabile esecuzione).
Non c’è spazio per il sentimentalismo, per l’empatia. Non c’è tempo, siamo sotto un rullo che ci schiaccia e annichilisce.
Filologicamente, il film è attentissimo nel riportare l’atteggiamento anche linguistico dei nazisti: i corpi degli sterminati sono “pezzi”, le carbonizzazioni con i lanciafiamme sono “incendi”, e così via.
Eccellente la prova del protagonista principale, Géza Röhrig, i cui occhi infossati nel volto cinereo, sembrano vuoti, spenti, eppure lasciano trasparire la lotta interiore che lo sta consumando; una lotta ancora più devastante dei tormenti fisici a cui è sottoposto in ogni momento della giornata: l’umanità e l’istinto di sopravvivenza si pongono in antitesi, finendo per rivelarsi inconciliabili. Tentare di restare umani o tentare di restare vivi?
Lo scopriremo nel finale, di cui non oso fare cenno, degna chiusura di un film molto coraggioso e ricercato.
Nicola Ivan Bernardi