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Gatto ucciso: non distogliere lo sguardo da ciò che non ti piace

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Il Gatticidio. Ovvero, come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare i lucerini. 

 

Nell’Antico Egitto, si usava fare un piccolo taglio sul braccio dei bimbi per mischiare il loro sangue con quello dei gatti, in onore alla dea Bastet. Chi uccideva un gatto, era messo a morte! 

Lucera deve aver ereditato un po’ di sangue egiziano, visto l’inferno che si è scatenato a seguito della morte di un micio, entrato in un negozio.

Quanto accaduto mediaticamente offre molti spunti di riflessione, ma a scanso di equivoci è bene porre dei punti cardine. 

Primo: uccidere un gattino gratuitamente è un atto crudele.

Secondo: la libertà di manifestare il proprio pensiero è costituzionalmente garantita.

Terzo: farsi giustizia sommaria, insultare e minacciare la presunta colpevole è incivile e lo stato d’ira per il fatto ingiusto non può giustificare ogni turpitudine.

Fatta la dovuta premessa, tentiamo un ragionamento più complesso.

Va detto per onestà intellettuale, che in una comunità dove lo Stato è spesso assente, se il gattino fosse stato vittima di un noto delinquente, tutti avremmo fatto finta di niente.

Ahimè, la reazione dipende dal carnefice, non dalla vittima o dal fatto in sè. 

L’accettazione di questo meccanismo è mortificante. 

In una società normale, dovrebbe essere tutto molto lineare e semplice: a fronte di un evento esecrabile, le persone manifestano la propria indignazione liberamente e civilmente, con l’intento di sensibilizzare i propri concittadini ed impedire che l’evento si ripeta. 

Purtroppo, la quotidianità smentisce la teoria ed assistiamo all’imbarbarimento dei comportamenti, in ognuna delle fazioni che inevitabilmente vengono a crearsi. 

Gli indignati manifestano come è nel loro diritto, ma qualcuno va oltre i limiti danneggiando la credibilità della buona causa.  

Gli indifferenti generalizzano e accusano tutti gli indignati indistintamente di essere dei barbari, eccependo che comunque ci sarebbero fatti più gravi per cui protestare. 

Da un lato, abbiamo la “minimizzazione morale” del gesto che tende a sopire la coscienza collettiva (cito la consigliera comunale Raffaella Gambarelli). Dall’altro, abbiamo l’estremizzazione della protesta da parte di alcuni esaltati, addirittura contro la persona sbagliata (aspetto sottolineato dal sindaco Antonio Tutolo). 

Sono due fenomeni con una matrice comune: sia la minimizzazione che l’estremizzazione scaturiscono dalla paralisi sociale causata dalla frustrazione e dalla paura.

La frustrazione per le storture subite passivamente e la paura di ritorsioni in caso di ribellione. 

Il corto circuito è evidente: non si discute più se sia condannabile o no la violenza contro gli animali (molti hanno preso le distanze dall’iniziativa premettendo di essere amanti degli animali). Si discute, invece, se si debba manifestare o no.

E’ un meccanismo difensivo che ci permette di distogliere lo sguardo. Il problema è che per tal via ci scanniamo tra di noi, mentre i carnefici se la ridono.

E’ chiaro quindi che la scala dei disvalori non dovrebbe essere un metro per stabilire per cosa manifestare e per cosa no. La scala dei disvalori dovrebbe misurare la maggiore o minore offensività di condotte già di per sé esecrabili, contro le quali, tutte, la comunità dovrebbe manifestare il proprio sdegno.

Dunque, che fare?

Forse, dovremmo cominciare a non distogliere lo sguardo da ciò che non ci piace?

 

Nicola Ivan Bernardi

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