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I migranti tra morte nel Mediterraneo e menefreghismo della comunità internazionale. Nota e poesia sui profughi da Pasquale Zolla

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Il Mar Mediterraneo è stato sempre al centro delle vicende della storia dell’umanità: dall’antagonismo fra gli imperi del mondo fino alle rivalità fra nazioni del secolo scorso.
Oggi il Mediterraneo non rappresenta più una lotta per il potere, ma la sofferenza di chi è inerme.
I corpi che la marea porta a riva sulle spiagge d’Europa, le imbarcazioni affollate alla deriva e le famiglie che rischiano tutto per fare quel viaggio pieno di insidie che ha una sola semplice interpretazione: l’incapacità della comunità internazionale di affrontare la crisi e di farlo in modo umano e compassionevole.
Ogni giorno sulle coste meridionali d’Italia giungono profughi che hanno dovuto abbandonare le proprie case fuggendo da guerre fratricide e creando implicazioni pesantissime sulla struttura economica e sociale dei paesi ospitanti.
Sono in continua crescita e spesso vengono accampati in tende e baracche senza servizi e senza documenti validi né permessi di lavoro.
La situazione si aggrava ogni giorno di più nel sostanziale disinteresse della comunità internazionale.
Gente che chiede assistenza e solidarietà perché arriva affamata e in condizioni precarie, fuggendo dall’orrore della morte, dal morso del terrore e trovando, molte volte, la morte nelle acque del Mediterraneo.
È necessario, una buona volta, che i governanti dei Paesi del mondo intero si riuniscano intorno ad un tavolo per discutere seriamente del problema e cercare una soluzione partendo dall’eliminazione delle fabbriche che vendono armi sottobanco con il loro beneplacito.
Basta fare lo scaricabarile chiudendo gli occhi davanti ad una delle più grandi tragedie della storia contemporanea.
E ai guerrafondai orientali dico di non nascondere i loro loschi interessi dietro a credi religiosi, perché il male fatto alla propria gente è un male fatto a Dio, che è Pace e Amore, in qualsiasi modo lo si voglia chiamare.
 
Skappà d’ò pròbbete kambà
Nu sckuppe lundane, remure
de vattagghje ka s’avvecinene
sèmbe de chjù. ‘A pavure è i lagreme
l’ucchje jènghene, ka da mise nen vèdene
sckitte mòrte è rruvine. ‘Na bòmme
kògghje n’areve avvecine a’ kase.
De furje chjù ka se póde, se pigghjene
mbrazze i krjature chjù pecceninne
è tra lukkule è chjande de kòrze
s’aèsce d’a kase. Timbe ne nge ne stà
de pegghjà ninde: ce se arretròve
ammizze a’ strate è subbete ngammine.
Kòrre! Skappà lundane! Abbesugne
jì vìje subbete subbete pekkè kraje
tròppe tarde   apputarrìje ghèsse;
kraje ‘a kase ghèsse putarrìje
nu mendòne de sderrupe. Se fernèsce
sóp’a nu varkòne pe skappà nen nzule
d’a uèrre, ma pure d’ò pròbbete kambà,
da tuttekuille ka se tenéve, kumbrése
u ‘vvenì ka p’i figghje se sunnave!

Fuggire dalla propria vita

Uno scoppio lontano, rumori
di battaglie che si avvicinano
sempre più. Il terrore e le lacrime
riempiono gli occhi, che da mesi vedono
solo morte e macerie. Una bomba
colpisce un albero vicino casa.
Veloce più che non si può, si prendono
in braccio i bimbi più piccoli
e tra grida e pianti di corsa
si esce di casa. Non c’è tempo
di prendere nulla: ci si ritrova
per strada e subito in cammino.
Correre! Fuggire lontano! Bisogna
Andare via subito perché domani
Potrebbe essere troppo tardi;
domani la casa potrebbe essere
un mucchio di macerie. Si finisce
su di un barcone per fuggire non solo
dalla guerra, ma anche dalla propria vita,
da tutto ciò che si aveva, compreso
il futuro che si sognava per i figli!

Pasquale Zolla

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