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Cose di Cosa Nostra




Il grande successo del film tv  “Paolo Borsellino”, circa 12 milioni di spettatori, è un segnale che il pubblico non ha dimenticato i caduti nella guerra alla mafia.

La stagione delle stragi che culminò con gli assassini dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino trasformò la Sicilia, che finalmente trovò il coraggio di gridare il dolore e la rabbia generati da tanta violenza. Poi qualcosa, in parte, cambiò. “Cose di Cosa Nostra”, il libro intervista di Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani, contiene un passo  in cui il giudice trucidato a Capaci, con la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, si augura che la lotta alla Mafia non perda di incisività.

 

“Ripercorrendo il lungo, impressionante elenco dei caduti per mano mafiosa mi pare che la percentuale di omicidi che si potevano evitare o comunque rendere più difficili sia molto più elevata di quella dei morti, per così dire, fisiologici, normali, per il tipo di attività svolta. A volte mi dico che sarebbero morti comunque, ma l’idea che si sia facilitato il compito degli avversari mi fa montare il sangue alla testa.

La professionalità consiste quindi anche nell’evitare le trappole. Non sempre chi stava intorno a me ha visto nella giusta luce l’attenzione pignola che dedicavo al problema della mia sicurezza: ritengo che si tratti della regola numero uno, quando si ha il compito di combattere la mafia. Si è favoleggiato sulle mie scorte, sul mio gusto del mistero, sulla clandestinità della mia vita, sulla garitta davanti alla mia abitazione. E’ stato scritto che mi spostavo da un bunker a un altro, dal Palazzo di Giustizia alle carceri e dalle carceri alla mia prigione personale: la mia casa. Qualcuno ha pensato forse che attribuissi troppa importanza a questi problemi. Non sono d’accordo. Conosco i rischi che corro facendo il mestiere che faccio e non credo di dover fare un regalo alla mafia offrendomi come facile bersaglio.

Noi del pool antimafia abbiamo vissuto come forzati: sveglia all’alba per studiare i dossier prima di andare in tribunale, ritorno a casa a tarda sera. Nel 1985 io e Paolo Borsellino siamo andati in “vacanza” in una prigione, all’Asinara, in Sardegna per stendere il provvedimento conclusivo dell’istruttoria del maxiprocesso.

Non rimpiango niente, anche se a volte percepisco nei miei colleghi un comprensibile desiderio di tornare alla normalità: meno scorte, meno protezione, meno rigore negli spostamenti. E allora mi sorprendo ad aver paura delle conseguenze di un simile atteggiamento: normalità significa meno indagini, meno incisività, meno risultati. E temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza della Stato. Sarebbe insopportabile risentire nel corso di un interrogatorio l’ironia e l’arroganza mafiosa di una volta.”

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