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Storia di Lucera - I Saraceni a Lucera

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Dopo aver letto il primo capitolo che introduceva i Saraceni in Sicilia continuiamo il viaggio nella storia di Lucera e delle sue origini ad opera di Nando Carrescia.


Per farlo al meglio leggi tutti gli interventi correlati alla Storia di Lucera.
 
Una volta domati quasi tutti i saraceni, si presentò il problema della loro sistemazione. Federico Il non volle lasciarli in Sicilia, in quanto la conoscenza dei luoghi e la vicinanza dei compatrioti dell’Africa settentrionale avrebbe potuto spingerli ad una nuova ribellione. Nemmeno volle bandirli dal suo Stato, come contemporaneamente si stava verificando nella penisola iberica, perché intuì che quegli uomini sarebbero stati utili alla sua causa. Fu allora che l’Imperatore realizzò uno dei disegni più grandiosi della sua vita: il trasferimento dei saraceni dall’ isola sconvolta dalle loro scorrerie. Essi vennero inviati a Lucera in Puglia, Girofalco in Calabria e Acerenza in Lucania; alcuni gruppi si stabilirono anche nelle zone limitrofe: Stornara, Casal Monte Saraceno, Castel Saraceno. Queste località vennero scelte perché lontane dal mare e, quindi, non potevano facilitare il ritorno in Sicilia. Per la data del primo trapianto, si prendono in considerazione le conclusioni del Winkelman (1) e cioè che esso avvenne in più riprese durante gli anni 1224-1225, mentre una seconda migrazione vi fu nel 1246.
Nessuna cronaca contiene dati precisi circa il numero dei saraceni di Lucera. L’Amari suppone la presenza di cinquantamila coloni (2), mentre la più comune valutazione del numero di saraceni trasferiti a Lucera si aggira attorno a sessantamila, di cui oltre un terzo le forze combattenti, a differenza delle altre feudali (3).

Questa presenza cosi numerosa in una città, che prima era cristiana, attira su Federico il malcontento del Papa Innocenzo IV, il quale rende pubblico il suo lamento nel concilio di Lione. Anche il Papa Gregorio IX rimprovera spesso all’Imperatore il favore concesso agli arabi a danno dei cristiani i quali sono costretti ad adeguarsi alla presenza musulmana.
I saraceni si adattarono malvolentieri alla nuova vita e già nel 1224, a Lucera, i primi gruppi si ribellarono ma vennero prontamente sottomessi. Una seconda ribellione, avvenuta nel 1226, costrinse l’esercito imperiale ad assediare la città. Il successo delle forze imperiali si deve ad uno stratagemma: il cavaliere Pietro Fortugno, travestito da musulmano, riuscì ad entrare nella città, durante la notte, ne aprì le porte e consentì ai soldati di avere ragione degli insorti.
Il Fortugno venne ucciso e al suo posto venne ricompensato il figlio Lancelotto che ricevette in dono i castelli di Conza e Apia (4).
La nostalgia della Sicilia continuò a farsi sentire a lungo nell’animo dei saraceni i quali, spingendosi per motivi di commercio fino alla costa della Calabria, cercavano di passare alle loro antiche sedi; se non riuscivano subito nell’intento, fissavano li la propria dimora per ripetere il tentativo in un momento più propizio.
Inizialmente, Federico II si limitò a raccomandare alle autorità di Messina la massima sorveglianza affinché i saraceni non solo non passassero il mare ma, neppure, si domiciliassero nei luoghi della Calabria per i loro affari commerciali. In seguito, il 25 dicembre 1239, emanò un decreto più risolutivo secondo cui tutti i saraceni del continente dovevano essere portati a Lucera. In questo modo, sparirono le colonie di Girofalco e Acerenza. Dopo il 1225, e per diciotto anni, né le cronache né i documenti accennano all’esistenza di saraceni in Sicilia. Ciò non significa, però, che essi fossero completamente scomparsi dall’isola. Da quanto si apprende da fonti arabe, nel luglio del 1243 Federico si trovò di fronte ad una nuova sollevazione generale di quelli che erano rimasti. Costoro salirono nuovamente sulle montagne e si fortificarono a Sciacca, Entella ed in altre inaccessibili posizioni. Motivo della ribellione fu nuovamente l’estrema miseria in cui erano caduti questi ultimi rappresentanti in Sicilia degli antichi conquistatori arabi. Per più di tre anni resistettero all’ esercito imperiale. Nel 1246 Federico inviò contro di loro il proprio genero, il conte Riccardo di Caserta della famiglia d’Aquino, dal quale furono sconfitti e mandati a Lucera (5).
Era stata, quest’ultima rivolta, la più dura, tanto da giustificare la preoccupazione di Federico che si era rivolto direttamente agli insorti, con una lettera dell’agosto dello stesso anno, dando loro un mese di tempo per arrendersi.
Con l’emigrazione del 1246, la colonia saracena di Lucera raggiunse il massimo sviluppo.
Questo audace esperimento, pur apparendo la soluzione più drastica e crudele, si rivelò un notevole successo politico; sortì infatti un duplice risultato positivo: portò alla pacificazione della Sicilia e diede successivamente un forte impulso all'artigianato, al commercio ed all'agricoltura nella Capitanata. Quando i saraceni si convinsero che non era intenzione dell'imperatore sterminarli ma lasciar loro ogni possibilità di professare la loro fede e di lavorare in piena libertà sotto un proprio capo e propri amministratori, trasformarono l'odio in devozione.
Federico portò via i saraceni dalla Sicilia per vari fini: primo per rendere l’isola più tranquilla ed immune dalle insolenza degli arabi, ma concomitante fu anche un altro motivo di non lieve peso. Lucera e il suo territorio erano nel demanio reale; tanto scarso era il numero degli abitanti, da venirne poco o nessun profitto al tesoro del re. A Federico dovette sorridere il pensiero di valorizzare anche i larghi latifondi, e di colmare i vuoti lasciati dalle sanguinose repressioni. Pertanto, favorì largamente la costituzione di colonie di coltivatori lombardi; così alla ragione politica e militare sposò quella economica e, nel bel mezzo della Puglia, trasferì i saraceni.
Chi guardò i saraceni di Lucera vide in essi solo soldati desiderosi di battaglia e di bottino, che consumavano i periodi di ozio nel godimento delle ricchezze rubate, sull’esempio dell’Imperatore che, in mezzo a loro, dimenticava volentieri le dottrine di Cristo per quelle del profeta Allah.
L'arrivo degli arabi fu seguito da un'opera di ristrutturazione urbanistica della città. Col divenire del tempo, infatti, Lucera assume l’aspetto di una città completamente araba, dotata di cammelli, oasi di animali esotici, harem, minareti e di una imponente moschea.
All'esatta squadratura dell’impianto geometrico della città romana, si sostituì la struttura quasi labirintica della città musulmana. Nel 1233 Federico II ordinò anche la costruzione di un castello, che fu insieme palazzo e grande baluardo difensivo; in esso erano ospitate: la zecca, il tesoro imperiale, le botteghe artigiane, la scuderia, la caserma ed abitazioni per duecento saraceni; ben presto il Castello divenne una delle sue residenze predilette e una delle più potenti fortezze d'Italia. Costruito, pare, sulla stessa area gia occupata dall’acropoli di Luceria Apula, colonia romana, il palazzo federiciano era un grande edificio a pianta quadrata, a tre piani, innestato su un basamento piramidale tronco poggiante su uno zoccolo di pietra viva a scarpata, che sarà poi assorbito dal castrum ordinato all’architetto francese Pietro d’Angicourt da Carlo I d’Angiò. Sorse su un colle a circa mezzo chilometro ad Ovest della città, dirupato da tre lati cosi che era quasi impossibile scalarli, come espugnare la rocca con i mezzi di guerra dell’epoca. Sul lato rivolto alla città la scarpata affonda in un largo fossato dove, secondo la tradizione, si apriva l’accesso ad una galleria segreta sotterranea, che sboccava nel centro della città, fin sotto un pozzo detto dell’Imperatore. Sempre dalla porta principale, si accedeva alla città a mezzo di un ponte levatoio che superava il fossato e nel quale si scendeva attraverso una lunga e stretta scala di soccorso ricavata nello zoccolo delle mura, tuttora in parte visibile. Agli estremi di questo lato, si ergono le due grandi torri circolari del castello chiamate, poi nel periodo angioino, l’una, a sud est, torre della Leonessa; l’altra, all’estremità opposta, del Leone.
La prima domina da sola la vista della fortezza. Dei due piani di cui e formata, il più basso (una volta adibito a scopo difensivo) riceve luce da lunghe feritoie; quello superiore ha l’aspetto di un’abitazione con finestre e nicchie. La merlatura comprendeva sedici merli collegati mediante davanzali e coperti con un leggero tetto di legno, cosi da consentire alle vedette di adempiere comodamente al loro servizio. Solo tre di essi sono stati risparmiati dal tempo, che però bastano a testimoniare i particolari, della forma originaria della torre.

Perché i popolani si ostinano a chiamare la Leonessa 'torre della regina'?
Si dice che alla gran torre e legato il nome della moglie di Manfredi, Elena degli Angeli, che a Lucera si era rifugiata confidando nella guardia saracena del castello quando apprese la notizia della rotta di Benevento. Si è poi stabilito che la torre della Leonessa non fu opera sveva, perché fu costruita qualche anno dopo la battaglia di Benevento da Carlo I d’Angiò. Assai meno grandiosa e completamente decorata dai suoi merli è la seconda torre, divisa in tre piani. Vi era una bocca di fontana, non più esistente, del Leone o del cane dalla quale prese presumibilmente il nome. Entrambe le torri si elevano sopra larghe basi sorgenti dal fondo del fosso, di ampiezza maggiore di esse e di circa sette metri di altezza. Tra queste due costruzioni, corre il muro rafforzato da sette torri minori, di pianta pentagonale che sorgono ad uguale distanza l’una dall’altra. Dell’interno del Castello e del corredo artistico degli appartamenti imperiali, ci sono giunte scarse notizie. Si pensa che si componeva in una serie di magazzini, scuderie, alloggi militari e caserme per i pretoriani ai piani inferiori e di una reggia centrale divisa in 32 stanze. Indubbiamente non vi era la sontuosità di Castel del Monte, ma le tendenze artistiche ed antiquarie di Federico ebbero a Lucera modo di affermarsi.

Si è scritto che del senso d’arte dell’imperatore erano testimonianza anche i bottini di guerra; famoso, in tal senso, il saccheggio di Roma e dintorni nel luglio 1242, in cui andarono sottratti due bronzi che avevano adornato una fontana in Santa Maria di Grottaferrata e che, poi, furono  esposte - prezioso ornamento del palatium - nella città saracena di Lucera (7). Il vasto interno della fortezza é oggi vuoto e deserto.
Il Sud del regno italico conobbe, sotto l’imperatore, un'era di grande risveglio artistico e politico, accompagnato da un vero e proprio boom edilizio: una smania irrefrenabile di Federico nell'erigere fortilizi, castelli, casini di caccia, rocche, palazzi; mai chiese o altri luoghi di culto religioso, ad eccezione della cattedrale di Altamura, l’unica costruzione sacra voluta dall’Imperatore.
Nel mezzogiorno vi é oggi un susseguirsi di manieri e ruderi. Lungo la fascia adriatica: cominciando da Vieste sul Gargano a Monte Sant'Angelo, per continuare con Barletta, Trani, Bisceglie; sulla penisola Salentina: Otranto e Brindisi, Oria al centro; sulle sponde dello Ionio: Gallipoli. Da Oriente a Occidente, partendo da Lucera, un'altra catena di manieri si spinge in Campania e Calabria: passa da Castel del Monte (Andria), punta decisa a Palazzo San Gervasio, Melfi e Lagopesole in Lucania, giunge infine a Benevento e Napoli.  Un'altra, ancora, da Bari a Gioia del Colle, a Gravina di Puglia; da Cosenza, Nicastro a Vibo Valentia e Reggio Calabria; oltre lo stretto: Messina e Taormina, Catania e Lentini, Augusta e Siracusa.
Molti di questi castelli erano gia esistenti e Federico II si limitò a modificarli, rendendo, a queste opere di difesa strategica del regno meridionale, anche la bellezza di decorazioni finissime.
 
1. P. Egidi, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, 1915, pag. 10 nota 3
2. M. Amari, Op. cit., vol. III, pag. 607
3. P. Egidi, Op. cit., pag. 29
4. F.Palumbo, Dalla Sicilia alla Capitanata; l’u1timo itinerario degli antichi dominatori saraceni, Lucera, 1991, pag. 25
5. T. Del Duca, 1 saraceni a Lucera, Lucera, 1988, pag. 4
6. P. F. Palombo, Op. cit., pag. 21
7. G. Gifuni, La fortezza di Lucera e altri scritti, Lucera, 1988, pag. 17
8. ibidem, Op. cit., pag. 25

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